11 de dezembro de 2023

Nicola Lagioia: uno degli aspetti più potenti de L'amica geniale riguarda il modo in cui viene resa l'interdipendenza tra i personaggi. È evidente nel rapporto tra Lila e Elena, nel modo in cui ognuna riesce a depositare nell'altra la propria forma, la quale (proprio come una forma di vita autonoma) continua ad agire al di là della presenza fisica che l'ha generata. Ogni volta che Lila svanisce dall'orizzonte degli eventi di Elena, continua comunque ad agire nell'amica e, si presume, accade anche il contrario.

Leggere il suo romanzo è confortante, perché nella vita vera succede così. Le persone per noi davvero importanti (le persone a cui abbiamo dato l'opportunità di scassinarci interiormente) non cessano di interrogarci, ossessionarci, perseguitarci, all'occorrenza guidarci. Anche se nel frattempo sono morte, o lontane, o se ci abbiamo litigato. Il che — mi sembra — altera addirittura la costruzione dei ricordi. Il modo in cui rileggiamo il romanzo della nostra vita dipende anche da come agiscono silenziosamente in noi (modificandone gli snodi) le persone fondamentali. Per come riesce a rendere questi meccanismi, L'amica geniale mi sembra un romanzo di una modernità assoluta.

Però nei suoi quattro libri questa interdipendenza si estende a tutto il mondo delle due amiche. Nino, Rino, Stefano Carracci, i fratelli Solara, Carmela, Enzo Scanno, Gigliola, Marisa, Pasquale, Antonio, persino la Galiani... Nonostante per loro le regole dell'attrazione reciproca non siano intense come quelle che legano Elena e Lila, rimangono tutti comunque sempre in orbita. Sbarazzarsene è impossibile. Ricompaiono di continuo gli uni davanti agli altri. Certo litigano. Si tradiscono. In certi casi finiscono quasi per ammazzarsi. Si dicono o si fanno cose che in altri contesti sarebbero sufficienti a troncare i rapporti per sempre. Eppure, questo non succede quasi mai. C'è sempre uno spiraglio che rimane aperto (penso ad esempio a Marcello Solara che continua a essere cordiale con Elena anche dopo i suoi attacchi su L'Espresso). Sembra che solo la morte — o l'estrema vecchiaia — possa spezzare i loro legami.

Tenendo conto di cosa sono fatti quei legami, potrebbe sembrare una maledizione. Eppure non è da considerare anche una benedizione? L'alternativa rischia di essere la solitudine assoluta. In certi casi confesso che li ho invidiati.

Elena Ferrante: da dove comincio? Dall'infanzia, dall'adolescenza. Certi ambienti napoletani poveri erano affollati, sì, e chiassosi. Raccogliersi in sè, come si dice, era materialmente impossibile. Si imparava prestissimo ad avere la massima concentrazione nel massimo disturbo. L'idea che ogni io è, in gran parte, fatto di altri e dall'altro non era una conquista teorica, ma una realtà. Essere vivi significava urtare di continuo contro l'esistenza altrui ed esserne urtati, con esiti ora bonari, l'attimo dopo aggressivi, quindi di nuovo bonari.

Nei litigi si tiravano in ballo i morti, non ci si accontentava di aggredire e insultare i vivi: si finiva per degradare con naturalezza anche zie, cuginette, nonni e bisnonni che non erano più al mondo. E poi c'era il dialetto e c'era l'italiano. Le due lingue rimandavano a comunità diverse, entrambe gremite. Ciò che era comune all'una non era comune all'altra. I legami che stabilivi nelle due lingue non avevano mai la stessa sostanza. Variavano gli usi, le regole di comportamento, le tradizioni. E quando cercavi una via di mezzo ti veniva un dialetto finto che era contemporaneamente un italiano triviale.

Tutto questo mi (ci) costituisce, ma tuttora senza un ordine e una gerarchia. Niente è tramontato, tutto è qui nel presente. Certo, oggi ho luoghi piccoli e tranquilli dove mi posso raccogliere in me, ma questa espressione la sento tuttora un po' ridicola. Ho raccontato di donne in momenti in cui sono assolutamente sole. Ma nelle loro teste non c'è mai silenzio e nemmeno raccoglimento.

La solitudine più assoluta, almeno nella mia esperienza, e non solo narrativa, è sempre, come nel titolo di un libro molto bello, troppo rumorosa. Per chi scrive non c'è persona rilevante che si rassegni a tacere definitivamente, anche se abbiamo interrotto ogni rapporto da tempo per rabbia, per caso o perché il suo tempo era finito. Io nemmeno riesco a pensarmi senza gli altri, men che meno a scrivere. E non parlo solo di parenti, di amiche, di nemici. Parlo delle altre, degli altri, che oggi, adesso, figurano soltanto nelle immagini: nelle immagini televisive o dei rotocalchi, a volte strazianti, a volte offensive per opulenza. E parlo di passato, di ciò che in senso lato chiamiamo tradizione, parlo di tutti gli altri che sono stati al mondo prima e hanno agito e agiscono oggi attraverso di noi.

L'intero nostro corpo, volente o nolente, realizza una folgorante resurrezione dei morti proprio mentre avanziamo verso la nostra stessa morte. Siamo, come dice lei, interconnessi. E dovremmo educarci a guardare a fondo in questa interconnessione - io la chiamo garbuglio, o meglio frantumaglia - per darci strumenti adeguati e raccontarla. Nella più assoluta tranquillità o coinvolti in eventi tumultuosi, al sicuro o in pericolo, innocenti o corrotti, noi siamo la ressa degli altri. E questa ressa per la letteratura è sicuramente una benedizione.

Ma quando andiamo alla materialità dei giorni, alla fatica quotidiana di vivere, stento a fare il gioco del rovesciamento di senso: maledizione/benedizione, benedizione/maledizione. Mi sento bugiarda se considero l'eredità del rione un fatto positivo. Capisco che le maglie molto strette e resistenti del mondo che ho raccontato possano dare l'idea di un antidoto. Ci sono molti momenti, nell'Amica geniale, dove l'ambiente in cui Lila ed Elena sono immerse appare, malgrado tutto, bonario e accogliente.

Ma non bisogna perdere d'occhio quel 'malgrado tutto'. I legami col rione limitano, fanno male, corrompono o dispongono alla corruzione. E il fatto che non si riesca a reciderli, che si ripropongano oltre ogni loro apparente dissolversi, non è un bene. L'insorgenza improvvisa delle cattive maniere dall'interno di quelle buone, salvo poi tornare al sorriso, a me sembra tuttora il sintomo di una comunità inaffidabile tenuta insieme da complicità opportunistiche, e perciò attenta a dosare furie e ipocrisie per non finire in una guerra aperta che comporterebbe scelte definitive: tu stai di qua, io di là.

No, quindi, ciò che compatta la piccola folla del rione è, nei fatti, inevitabilmente guasto e, ai miei occhi, una maledizione. Naturalmente, però, quella folla è fatta di persone e le persone hanno sempre, tra mille contraddizioni, una loro preziosissima umanità cui un racconto deve badare, se non vuole fallire. Tanto più che la gente si passa ciò che ha di buono e ciò che ha di cattivo quasi senza accorgersene. Il rione è immaginato così e anche Lila ed Elena sono fatte della sua materia, ma come se essa fosse allo stato fluido e trascinasse con sé di tutto. Volevo che, contro la fissità chiusa dell'ambiente, loro fossero mobili, che niente riuscisse a stabilizzarle davvero e che soprattutto esse stesse si attraversassero reciprocamente come se fossero d'aria. Ma senza mai liberarsi della forza d'attrazione del luogo di nascita. Anche loro dovevano sentirla, loro specialmente, malgrado tutto.

Ecco, è forse proprio quel 'malgrado tuttò che è tecnicamente difficile da raccontare. Bisogna badare a quel 'tutto', non dimenticarselo, riconoscerlo sotto ogni suo travestimento, anche se i legami affettivi, le consuetudini acquisite con l'infanzia, gli odori, i sapori, i suoni carichi di dialetto ci seducono, ci inteneriscono, ci fanno oscillare, ci rendono eticamente instabili. Forse ottenere sulla pagina la qualità cangiante delle esistenze significa sottrarsi ai racconti troppo rigidamente definiti. Siamo tutti soggetti a una continua modificazione che però, per evitare l'angoscia dell'impermanenza, camuffiamo fino alla vecchiaia con mille effetti di stabilizzazione, il più importante dei quali promana proprio dalle narrazioni, specie quando ci dicono: è andata così.

Questo tipo di libri non li amo particolarmente, preferisco quelli in cui nemmeno chi racconta sa bene come è andata. Narrare per me ha sempre significato depotenziare le tecniche che danno i fatti come incontrovertibili pietre miliari e potenziare quelle che mettono in scena l'instabilità. Il lungo racconto di Elena Greco è tutto improntato all'instabilità, forse ancora più che i racconti di Delia, di Olga, di Leda, le protagoniste dei miei libri precedenti. Ciò che Greco allinea sulla pagina, in principio con apparente sicurezza, diventa sempre meno governato. Cosa sente davvero, questa narratrice, cosa pensa, cosa fa? E cosa fa e pensa Lila, e chiunque altro irrompa nel suo racconto? Tutto, nell'Amica geniale, volevo che si formasse e si sformasse.

Nello sforzo di raccontare Lila, la sua amica si vede costretta a raccontare tutti gli altri e se stessa tra loro, incontri e scontri che lasciano le tracce più diverse. Gli altrinell'accezione più ampia, come dicevo, ci urtano di continuo e noi facciamo lo stesso con loro. La nostra singolarità, la nostra unicità, la nostra identità si crepano senza sosta. Quando alla fine di una giornata esclamiamo: mi sento a pezzi, non c'è niente di più letteralmente vero.

A guardar bene, siamo le spinte destabilizzanti che subiamo o che diamo, e la storia di quelle spinte è la nostra vera storia. Raccontarla significa raccontare compenetrazioni, un subbuglio, anche, tecnicamente, una commistione incongrua di registri espressivi, di codici e di generi. Siamo frammenti eterogenei che, grazie a effetti di compattezza - le figure eleganti, la bella forma - stanno insieme malgrado la loro casualità e contraddittorietà. La colla più a buon mercato è lo stereotipo. Gli stereotipi ci acquietano. Ma il problema è, come dice Lila, che anche solo per pochi secondi si smarginano sospingendoci nel panico. Nell'Amica geniale, almeno nelle intenzioni, c'è un dosaggio meticoloso tra stereotipia e smarginatura.

3 de dezembro de 2023

Acabo de ver o início de um vídeo no Terreiro do Paço onde uma multidão se reuniu ontem ao fim da tarde para ver acender luzes numa árvore de Natal gigantesca que lá construíram. Também houve fogo de artifício. Vi as pessoas, eram de todas as idades, estavam jovens famílias com bebés ao colo, carrinhos de bebé ao lado e crianças pela mão, mas também adolescentes com pouca roupa colada aos corpos magros, pessoas de cabelo branco, grupos relativamente grandes de adultos numa festa animada à espera das luzes, a conversar, a dar saltos, a dançar, provavelmente para ajudar a espantar o frio. Vi este vídeo com a mesma perplexidade com que vejo vídeos de crimes de guerra. O que estão aquelas pessoas a fazer? O que significa tudo isto? O que esperam? Porque se reúnem milhares de estranhos numa praça para ver luzes? Terão motivações religiosas? Haverá outro pretexto a atraí-las de que não esteja a par, estão a distribuir dinheiro, a oferecer casas, brinquedos? Não bastava a vida lenta e isolada que levo, fazendo e evitando os mesmos caminhos, numa frugalidade extrema. Sinto-me completamente alienada. No fundo, se for a ver, talvez as inveje. Talvez estejam mais vivas do que eu por estarem juntas. Uma conversa no Facebook leva-me por estes dias a inquirir sobre as minhas razões para aquilo que defini, com um inesperado excesso de convicção, ser uma falta de vontade de escrever sobre um filme, e me levou a perceber que não se tratava de uma falta. Acontece-me isto muitas vezes, ter uma forte convicção sem que saiba porquê, sem procurar saber porquê, como se a determinação bastasse para me dispensar da sua necessidade ou da sua irrelevância. Não questionar a nossa determinação, ainda que forte, sobretudo se forte, torná-la-á cega? Seremos apenas tacanhos quando insistimos no dogma das nossas reflexões? De que apaziguamento irei à procura na resposta? É o mais difícil, descobrir a exata morada do medo. Abomino o consolo das respostas apaziguadoras, a abjeta mentira de não nos vermos pelo que somos que usamos impunemente para cometer atrocidades ou sacrifícios, e para nos refugiarmos em modos de vida insensatos movidos pela busca de poder. Mas também sei que há coisas que prefiro não ver. Quero romper o coração do outro lado, mas prefiro não saber como é que isto afeta quem o lê, por exemplo, e morrer mal o publique. Prefiro a invisibilidade à exposição, na qual arriscamos ser atacados ou louvados. Um amigo instigava-me a contrariar essa tendência, a resistir-lhe contra mim, e aconselhava-me a publicar a ligação aos textos em todas as redes sociais que estivesse a usar. «Perdido por cem, perdido por mil», pensava, e ouvia-o. Depois sentia uma alegria enorme quando alguém publicava um texto, me escrevia, me enviava alguma coisa a propósito. Contrariava-me, reconhecendo o equívoco da predisposição em esconder o pouco que tenho de valor na esperança que o distanciamento, ainda que sustentado pelo temor ou pela ousadia, o preserve. As imagens desse filme mostram-me uma coisa que sempre desejei e nunca tive e não quero adulterar ou desperdiçar, não quero deixar de a ver. Num tempo em que tudo o que dizemos tem a aparência de uma defesa hostil, corria o risco de cair na mediocridade do individual, de fazer ficção para o camuflar ou pior, corria o risco de ser arguta, de nomear, como os críticos. A intenção condena a narrativa, se procuro alguma coisa quando escrevo é ser totalmente negligente. Não consegui sequer chegar perto. Que posso dizer sobre o silêncio que não o estrague? Tudo me parece inadequado, como se a inaptidão estivesse do lado do próprio dizer e a coincidência com as imagens fosse impossível. Prefiro soçobrar sob o peso da imanência. É uma teimosia cega, claro, é absurdo. Não tem sentido, estou alienada. Tudo verdade. As coisas mais importantes que acontecem na vida não são vividas em silêncio, mas precisamente quando o quebramos, e nunca é cedo demais. Quando chegamos ao jardim e está sol, parece que vai durar. 
Turandot
Straniero! Non tentar la fortuna!
Gli enigmi sono tre,

2 de dezembro de 2023

“Sanity is a cozy lie.”

Susan Sontag
Não conseguiria nunca dizer nada sobre a minha mãe:
como ela repetia, vais arrepender-te um dia,
quando já cá não estiver, e como eu não acreditava
nem no “não estiver” nem no “já não”,
como gostava de a observar quando lia os grandes êxitos,
começando sempre pelo último capítulo,
como na cozinha, convencida de que não era
lugar para ela, fazia o café dominical
ou, pior ainda, filetes de bacalhau,
como estudava o espelho enquanto esperava os convidados,
fazendo a cara que melhor a impedia
de se ver como era (nisto
e em mais umas tantas fraquezas saio a ela),
como falava demais sobre coisas
que não eram o seu forte e como eu estupidamente
a arreliava, por exemplo, quando
se comparava a Beethoven ao ficar surda
e eu dizia, cruelmente, mas sabes ele
era talentoso, como perdoava tudo,
como eu recordo isso e como, de Houston, fui de avião
ao seu funeral, fui incapaz de dizer uma palavra
e ainda hoje não consigo.

Adam Zagajewski

30 de novembro de 2023

“Se quisesse, apresentava-me como uma vítima da escrita, da inocência, da neurose e suas instâncias psiquiátricas e psicanalíticas; uma vítima da mitologia do fogo e da água, das razões misteriosas da morte e transfiguração, ou do princípio de que aquilo que está em baixo é igual ao que está em cima, das práticas sexuais angélicas no fundo do inferno; vítima, enfim, da oposição ao mundo e do radicalismo com que alguém se empenha na utopia do ouro onde gloriosamente queima os dedos. Poderia dizer: sou um leproso!” 

Herberto Helder, Photomaton & Vox.
Desconfio tanto da obscuridade como da evidência. 

29 de novembro de 2023

18 de novembro de 2023

Reduzir o problema a uma questão moral inviabiliza o pensamento crítico.

O conflito dá movimento à história. Abdicar dele é abdicar de uma história possível, especialmente do que traria à nossa própria deriva.

14 de novembro de 2023

Tenho muita vontade de escrever sobre as coisas que odeio. Escrever sobre aquilo que se ama é fácil, o amor traz em si uma elevação mesmo que insistamos em falar dele da maneira mais perversa e violenta. Não sei porquê, talvez porque a poesia esteja naturalmente instalada nas afinidades e a volúpia, embora escondida, seja conhecida de todos. Aquilo que odeio, contudo, não só está à mostra como pertence à mais pura vulgaridade, é banal, e é muito difícil escrever sobre isso sem soar igualmente medíocre. É como se a abjeção me arrastasse para dentro dela cada vez que a nomeio. Mas se a afasto, volto a vê-la à superfície, fala-me constantemente. Amar é raro, mas odiar? O ódio é universal, está em toda a parte, é a nossa mais íntima ligação ao mundo. E que se desengane quem pensar que na infância não temos senão sentimentos puros, virtuosos e imaculados. O ódio existe na infância de modo mais feroz do que em qualquer outra idade porque não tem contraponto, assim que nasce é inteiramente arremessado ao seu destinatário, sem perguntas, sem críticas, sem culpa. Nascemos a amar os nossos pais sem razão e impercetivelmente passamos um dia a odiá-los. Há ódios que demoram anos a formar-se, a declarar-se, muitos de que dificilmente acabamos por tomar consciência. O ódio é o trabalho de uma vida. Claro que também nos odiamos a nós próprios, às vezes mais do que qualquer outra coisa odiamo-nos a nós próprios e é nesse ódio que se baseia o nosso comportamento, todas as nossas decisões, a forma como vemos o nosso tempo, os outros, o futuro. Que material mais rico pode haver?

13 de novembro de 2023

“Depressões pessimistas devem ser consideradas pausas criativas nas quais as forças se restabelecem. Se tivermos consciência desse facto, as depressões passarão mais depressa. Jamais devemos sentir-nos deprimidos numa depressão.”

Etty Hillesum, Cartas 1942-1943.